venerdì 30 settembre 2016

L'università in inglese, a Milano

Durante il quinto anno di liceo si suppone la tua angoscia maggiore sia il sempre più vicino esame di maturità di Giugno, lo studio che comporta, l'ansia da sconfiggere, l'ostacolo da superare una volta per tutte. 

Per me, l'unica angoscia, se così si può definire, di quei mesi fu la scelta dell'università. Sapevo che in Italia le private, e in America i college, avevano tempistiche piuttosto anticipate per le iscrizioni delle matricole, quindi volevo muovermi per tempo per non lasciarmi sfuggire nessuna occasione che si poteva presentare. E' stato difficile scegliere tra giurisprudenza ed economia, inizialmente, per il semplice fatto che avevo ancora le idee confuse su come mi vedevo nel mio futuro (e un po' le ho anche adesso); poi, sul resto, non ho esitato neanche un attimo. 

America: no. Forse un exchange durante l'università o qualche esperienza prima o dopo la specialistica, ma per il resto, no. No, no, perché non è il mio posto nel mondo, questo l'ho capito tanti mesi fa, e certo, ci tornerei a riprendermi i pezzetti di cuore che ci ho lasciato, ma non potrei stare lì di nuovo per più di 5-6 mesi probabilmente. Se non uscendone stanca, e anche abbastanza stufa. 

Europa: neanche. Tornata da Minneapolis avevo voglia di stare un po' vicino casa, o perlomeno di sentire casa vicino, come rassicurazione, o come certezza. Copenhagen, Amsterdam, per dirne alcune, per quanto abbiamo delle bellissime università a prezzi competitivi, le vedevo già troppo lontane per i miei standard del momento. Comportavano di nuovo tanti voli da prendere, pacchi da spedire, ambienti sconosciuti e grandi avventure. 

Per quanto sia la più grande amante dei nuovi inizi e di qualsiasi avventura che mi metta alla prova, avevo semplicemente voglia di Italia. Di casa. 

Ho pensato, e perché non studiare economia in inglese pur restando in Italia, in un contesto internazionale, ma vicino a casa. 

E così: Milano. Per me vicino casa, per altri un po' di meno, ma sono punti di vista. 

Bachelor in International Economics and Management. Una facoltà per il 50% frequentata da studenti internazionali, un ambiente multietnico, vario davvero, dove ti senti spaesato ed immerso al tempo stesso. 
Sento parlare in aula in attesa del professore 4-5 lingue diverse da ogni direzione in cui mi giro. Il mio compagno di banco del giorno potrebbe essere di qualsiasi nazionalità. Provo a chiedere. Belga, mi dice. E lei? Lei è del Libano. 
Una ragazza la scorsa settimana mi ha chiesto gli appunti. E' mezza Spagnola, ma è nata in Colombia, e ha vissuto a Dubai, poi in Svizzera, un po' a Milano, con suo padre in Canada. Credo sia molto confusa, non deve essere facile da spiegare e nemmeno da vivere. 
Vedo una ragazza asiatica sola a lezione di Management. Mi avvicino. Alla mia presentazione in inglese lei risponde ''ciao, piacere, Giorgia, sono di Milano''. Giorgia, con gli occhi a mandorla e la carnagione cinese, è più italiana di me. 

Vado dalla professoressa a fine lezione, so che lei almeno è italiana, lo capisco dal suo cognome. Devo farle una domanda, ma in che lingua? Provo in italiano. Lei risponde ma non capisco niente, usa termini mai sentiti, vedo anche lei un po' in difficoltà. E a un certo punto: mi scusi professoressa can we switch back to english? I find it easier at this point!

Sorride. Non sa neanche lei dove siamo capitati. Siamo sicuri che sono a Milano?


mercoledì 24 agosto 2016

Mi trasferisco?!

Ho pensato fosse il momento di ritornare a scrivere, dopo 3 lunghissimi (ma non ingiustificati) mesi di assenza. Sì perché mi era mancata la schermata di blogger, scrivere e correggere una bozza e vederla pubblicata, anziché relegata tra le decine di altre che non hanno mai visto la luce; ma soprattutto perché da domani si apre un nuovo capitolo. E, si sa, questo blog è fatto per le nuove sfide.


Mercoledì 24 agosto 2016, l'1.31 di notte. Esattamente 2 anni fa atterravo a New York con tante valigie e altrettanti sogni per cui combattere. Ora invece di valigie ne ho sì altrettante, di sogni forse ancora di più, ma non ho un passaporto, né un visto. Non ho un aereo da prendere, né una nazione da lasciare. Ma sento in corpo la stessa eccitazione della Livia sedicenne pronta a sbarcare in America.

Sto attraversando infatti un momento che comporta un cambiamento geograficamente non rilevante come quello del 2014, eppure altrettanto impegnativo, nuovo.

Domani lascio Sulmona per Milano, per poco, per tanto, non si sa. Per tre anni almeno, questo di certo, ma non è tanto quello che conta.
Conta che si chiude un capitolo della mia vita, si gira pagina, si cambia penna, luogo, ragione, casa, un po' anche me stessa.
Mi sveglierò guardando un altro soffitto, che non ha l'odore di quello che ho avuto sulla testa per tanti anni, e dando il buongiorno a Ilaria, Bea e Anny e non a mamma e papà. Gestirò le mie spese, le responsabilità sulle spalle di una vita tutta nuova e le sfide belle e brutte.

Ma è paradossale quanto a distanza di 2 anni esatti si stia ripetendo la stessa cosa: vado via e divento grande. L'ho già fatto, ho già leccato le mie ferite e cucito i miei calzini e fatto lavatrici e ritirato i soldi in banca. Ho già cambiato casa, cambiato indirizzo, scuola, amici, abitudini, sport, aria, colore degli occhi, peso. Avevo 16 anni e mi mettevo i cerotti da sola, mi facevo da genitore ai colloqui scuola-famiglia, riempivo il carrello della spesa e andavo in agenzia ad organizzare i voli.

Quindi è vero che si chiude un capitolo per sempre. Mi trasferisco, divento studentessa universitaria, e quindi adulta quasi a tutti gli effetti. Ma è vero anche che si riconduce tutto all'America, e rivedo nel passo che sto per compiere tutto quello che ho già fatto, nelle valigie da riempire quelle che mi hanno accompagnata a Minneapolis. Rivedo tutto, in modo diverso, più consapevole, ancora più ambizioso, ancora più felice.

Ma l'ho già fatto. Non ho paura. Un po' grande ci sono già diventata. Da domani a Milano lo diventerò soltanto un po' di più.




martedì 17 maggio 2016

Come vestirsi per un ballo americano

Sono passati esattamente 365 giorni dal mio primo (e purtroppo ultimo) Prom americano, giorni volati, inutile dirlo.
Un anno fa ero intenta nei preparativi di una delle serate più belle che ho vissuto in questi 18 anni, destinata a rimanere il simbolo di un sogno americano vissuto e impresso nella pelle.

Un vestito blu notte, un up-do fatto dal parrucchiere, la borsa da sera bianca della mia nonna, un makeup artist a casa, una limousine nera e una bianca, un mazzo di rose ricevuto, uno di fiori blu al polso e un biondo spagnolo con cui vivere la notte dei sogni: anche quest'anno tutto ciò era stato fissato per il 17 maggio, quindi a 365 giorni di distanza mi ritrovo a rivivere le stesse scene, gli stessi luoghi, le stesse emozioni con gli occhi delle mie amiche che sono lì, con un nuovo vestito, un nuovo ragazzo, ma senza me.

Maggio è per tradizione il mese dei Prom di tutte le high school americane, quindi oltre a ritrovarmi in bacheca su Facebook le foto dei ragazzi della mia scuola in abito da sera, vedo anche quella di tutti gli exchange students di quest'anno. Molti di loro lo avranno questa settimana, altri a fine mese; alcuni ci andranno, altri (spero pochi!) no.
In ogni caso ho pensato di passare in rassegna i diversi tipi e abbigliamenti adatti per i balli americani, soprattutto per chi deve ancora partire e ha bisogno di un pretesto in più per sognarsi vestita da principessa.


  • Il primo ballo dell'anno è l'homecoming dance, in sostanza il ballo di bentornato a scuola, a cui possono partecipare gli studenti di tutti e quattro gli anni di high school, con o senza date, ciò il ragazzo/a accompagnatore/rice.
    L'homecoming è un ballo semi-formale, per cui si indossano abiti corti colorati da cocktail ovviamente all'americana, quindi con paillettes, spesso senza spalline o di colori stravaganti (verde mela, fucsia, ecc). La composizione di fiori da portare al polso è opzionale.
    Per i ragazzi giacca con cravatta/papillon/bretelle abbinate al colore del vestito di lei.

 

  • Sadie Hawkins è un ballo alla rovescia, probabilmente inizialmente ideato per una campagna anti-sessimo o pro emancipazione femminile. In sostanza non è il ragazzo a invitare la ragazza al ballo (cosa che avviene per l'homecoming dance, se si va accompagnati, e per tutti gli altri balli che elencherò successivamente) ma il contrario. Di solito i partecipanti non sono mai tantissimi perché le ragazze hanno difficoltà a farsi avanti, vale anche per me, che non ci andai. Ehm.
    Per l'abbigliamento va bene un qualsiasi vestito corto da serata con gli amici per lei, e pantaloni e camicia per lui.
     
  • Il Winter formal, anche detto Snow Ball è il ballo invernale (normalmente di Dicembre, pre vacanze natalizie) che come suggerisce la parola è formale. Ciò significa cena elegante e musica dal vivo, accompagnatore e abito lungo.
  • Il Morp o Anti-Prom è un ballo informale organizzato spesso indipendentemente dalla scuola, in cui si va non accompagnati (quindi con gli amici), vestiti assolutamente casual, quasi come una sorta di protesta contro il prom vero e proprio. Non si sa perché, ma il tema è sempre il fluo, quindi l'abbigliamento deve essere coloratissimo, scombinatissimo e possibilmente con pittura per corpo che si illumina al buio.


  • Il Prom è il bello americano per eccellenza, formale formalissimo, che vedete nei film. Si va accompagnati sotto invito di un ragazzo che fa la sua proposta di solito con un cartellone simpatico dato nel momento giusto. Soltanto i ragazzi dell'ultimo e penultimo anno sono ammessi, quindi quelli del primo o del secondo possono andare soltanto se invitati da uno/a più grande. 

Alla location del prom si va in limousine dopo aver passato due ore a fare foto di ogni genere. 



I ragazzi indossano uno smoking e le ragazze abiti lunghi spesso pomposi, al punto che alcune sembrano delle spose. L'abbigliamento ragazzo-ragazza deve essere coordinato per colore (colore del vestito di lei uguale a quello della cravatta/papillon di lui). 


Entrambi devono indossare il corsage o boutonniere, cioè fiori alla giacca per lui e al polso come bracciale per lei. 

 E il vostro sogno americano è servito. Buon ballo!



giovedì 7 aprile 2016

Americano vs. Inglese Brittanico

Sono partita per l'America con un inglese ben stampato nella testa: quello che ho studiato per tantissimi anni e che mi hanno insegnato a scuola. Pensavo di sapermela cavare bene con la grammatica, la coniugazione dei verbi, la quantità di parole che conoscevo.. insomma un po' con tutto.
Arrivata io in Minnesota però, è arrivata con me anche l'amara scoperta che la mia lingua non la capiva nessuno. E non parlo dell'Italiano, parlo purtroppo dell'inglese. Non sapevo di essere British finché mi è risultato difficile comunicare con gli Americani anche sulle cose più banali. Perché loro non parlano inglese, loro parlano in slang.


La mia primissima confusione fu sul famoso surname. Chiedevo il cognome dei miei compagni di classe per salvare i numeri in rubrica, ma nessuno capiva cosa volessi da loro. Mi avranno presa per pazza mentre mi impegnavo tantissimo a dire suuuuurnaaame con la pronuncia più buona possibile e nel modo più lento e scandito che potessi, ma loro, niente. Alla fine Katlyn scoppiò a ridere a fianco a me guardando il telefono, quando cercando su google aveva capito si trattasse del lastname. 

Di lì in poi, per tutto l'anno una serie di mie scoperte di questa nuova lingua, tra cui quella amara di dover ricominciare da capo su molti aspetti, cancellando quello che avevo imparato prima a scuola (e ora tornata in Italia, sono intenta nel processo inverso, cioè dimenticare l'Americano e riprendere l'inglese anglosassone.. sembra una barzelletta). Queste due lingue infatti sono davvero diverse, e ci vuole poco a smontare tutte le vostre conoscenze e farvi capire quanto dall'altra parte dell'oceano sareste incomprensibili.

Ricordate una delle primissime parole imparate alle elementari per descrivere le abitazioni? Flat, appartamento. Beh in America flat è solo ciò che è schiacciato, perché un appartamento è un apartment.

Carrozzina per bambini per me era pram, ma poi ho scoperto che lì pram è il modo dialettale per dire 'ballo di fine anno' e che passeggino si dice baby carriage.

La lattina non è tin, ma è can, e se non lo sapete dovete tenervi la sete. Così come l'armadio si dice closet, e non wardrobe, ma in questo sarete in entrambi i casi facilmente comprensibili.

Veramente confusionari sono il biscotto, non biscuit ma cookie, e la benzina che si dice gas (e non petrol). Per non dimenticare poi la mia fantastica gaffe con la host mum, quando a inizio Settembre mi chiese se a scuola volessi la hot lunch e io le dissi che preferivo pasti freddi perché faceva ancora troppo caldo per le zuppe. Ma hot lunch è la school dinner britannica, cioè semplicemente il pranzo della mensa scolastica. Per cui la scena è stata del tipo ''vuoi mangiare a mensa?'' ''no, preferisco pasti freddi''

Proseguendo con gli esempi abbiamo i pantaloni che non sono trousers, ma pants, e a sentire questo nome nelle conversazioni pensavo si parlasse di mutande. E le scarpe da ginnastica sneakers e non trainers. 

Ma se fino ad adesso questo sono solo alcune delle parole che potrebbero semplicemente creare difficoltà di comprensione in una conversazione, ce ne sono altre che hanno un significato completamente diverso tra inglese britannico e americano.
Tanti miei amici italiani in America si sono ritrovati a chiedere un preservativo in classe, quando in realtà volevano semplicemente una rubber, cioè una gomma per cancellare.

E poi non nego che è stato difficile per me durante i compiti in classe imparare a scrivere le finali in -or anziché -our (color/colour, flavor/flavour), oppure in -ize invece di -ise (recognize/recognise), altrimenti facevo errori, anche se poi il correttore automatico dei computer in classe mi ha salvata tante volte.

Aprile 2016 e intanto mi trovo ancora nel limbo tra America e Inghilterra: non so quale lingua so meglio e quale invece dovrei sapere. Per il momento mi accontento di conoscerlo bene in generale, l'inglese, ma le mie amiche su Skype continueranno a ridere dei miei you e so pronunciati da Londinese perché per loro ormai non sono più americana ma una British straniera.

giovedì 31 marzo 2016

L'importanza di leggere

Abbiamo sei, sette anni forse, quando ci sentiamo dire per la prima volta 'ma perché non leggi un bel libro?'; qualche anno in più quando uno di questi bei libri ci viene regalato per il compleanno al posto del solito giocattolo. Da lì in poi per molti è una vita di lettura, per altri un continuo buon proposito (quest'anno leggo almeno un libro!, ma poi, alla fine, niente).
Ma perché bisognerebbe leggere?


Insegnare a scrivere, a pensare, dare spunti di riflessione, educare, ispirare, questi alcuni degli obiettivi di un libro. Ma più che la mancanza di questi insegnamenti, ciò che davvero sfugge a chi non si è mai voluto dedicare alla lettura, è la possibilità di vivere una vita infinitamente più lunga e ricca di quanto ci è per natura destinato. Una vita vissuta non solo con i propri occhi, ma con quelli di qualsiasi personaggio di cui si sono seguite le vicende in un libro. 
La propria esistenza, grazie alla lettura, si arricchisce di quella di mille altri, si dilata da qualche decennio a diversi millenni, fa proprie esperienze al di là di quelle vissute in prima persona.

La lettura insomma dà immortalità, all'indietro, come il recentemente scomparso Umberto Eco sosteneva. Lui che di anni sentiva di averne vissuti cinquemila, perché era lì, nelle vicende di tutti i suoi libri, e in quelle di altri.

In questa prospettiva, davvero la lettura diventa qualcosa di imprescindibile: leggere è una necessità, uno strumento per conoscere il mondo passato, quello di oggi e noi stessi che ne facciamo parte.
Il rapporto tra uomo e letteratura è d'altronde un rapporto privilegiato, che va molto indietro nel tempo. L'uomo ha sempre avuto il bisogno di raccontare, e spesso di raccontarsi e di essere ascoltato, e ha trovato nel libro il mezzo migliore per soddisfare tale istinto. Nel racconto di quello o di quell'altro, ognuno può ritrovare sé stesso, la propria vita, le difficoltà vissute e quelle da affrontare.

Non stupisce allora il fatto che nell'era della tecnologia, il libro cartaceo continui ad essere il miglior compagno di molti, e che le librerie spuntino ancora qua e là (affiancate da negozi di iPhone).

Certamente però lo stesso non si potrebbe dire delle nuove generazioni, che, fortemente influenzate dal mondo dei media e dall'avvento dei social network, sembrino aver perso il gusto per la lettura. I loro compagni sono i video live di una showgirl che, perso il cellulare nel mare delle Maldive, si dichiarava sconvolta dall'essere stata costretta a leggere un intero libro non avendo altro da fare.
Gli esempi che ricevono sono tutt'altro che positivi: si inneggia all'ignoranza, all'analfabetismo, alla popolarità nei social network, al giorno d'oggi. Oggi che tra i libri che occupano le posizioni più alte delle classifiche dei più venduti, c'è posto per la biografia di Favij o la nuova interminabile serie di fanfiction dei One Direction (After con tanto di copertina veramente trash).

Ma la lettura è ben altro! E' vivere tante vite in altrettante pagine. E' sentirsi Mowgli sugli alberi e Pi tra le onde, sentire l'odore del mare leggendo i pensieri di Bartleboom.
Leggere è coinvolgimento totale di tutti i sensi, è il guardarsi allo specchio di sfuggita in cerca di un altro sé, perché sembra aver funzionato per Vitangelo, e in quel tentativo ridere del proprio sguardo riflesso speranzoso di vedersi diverso.

Ogni lettore è se ed è tanti altri, ha vissuto il 2000 e il 1700. Eco era presente alla battaglia delle Termopili e all'omicidio di Giulio Cesare, altri avranno spiccato il volo con il gabbiano Jonathan in un tempo indefinito e poi vissuto l'esperienza spirituale di Siddharta.

Ma la lettura, davvero, è ben altro, perfino oltre questo. Perché il valore inestimabile di un libro, paradossalmente, non si può neanche scrivere sulla sua stessa carta. Questo blog, poi, davvero non basterebbe.


mercoledì 30 marzo 2016

Come partire per un anno all'estero

Ormai sempre più diffusa, l'internazionalizzazione della scuola e la mobilità giovanile verso altri paesi ha particolarmente interessato l'Italia, specialmente negli ultimi anni.
Migliaia di ragazzi ogni anno lasciano il nostro paese per trascorrere un periodo (da 3 a 12 mesi) all'estero, sia all'università - tramite il programma Erasmus - che al liceo.
Per quanto riguarda quest'ultimo, il programma ministeriale consiste nel trascorrere 1 quadrimestre o entrambi i quadrimestri del quarto anno di liceo (o, raramente, del terzo), in un liceo straniero.

Come sapete ormai benissimo tra quei migliaia di ragazzi ci sono stata anche io durante l'anno scolastico 2014-15, quando ho studiato per un anno al Mounds View High School di Shoreview, Minnesota. Ma come ho fatto?

In realtà è molto semplice: decine di associazioni in Italia si dedicano esclusivamente a questa attività, cioè permettono a ragazzi di 16-17 anni di partire per un paese straniero, quindi basta rivolgersi a loro. Dato che il processo però non è proprio semplicissimo, gli step da seguire idealmente sono questi:

  • Ricerca l'associazione che più ti piace, in giro ce ne sono davvero tantissime, ma non tutte fanno al caso tuo! Infatti differiscono per prezzi, borse di studio, flessibilità, paesi tra cui scegliere, periodi di studio, ecc.

WEP, Intercultura, You Abroad, STS, EF, Interstudio, Mondoinsieme, sono solo alcune di queste. Basta cercare su Google e vi si aprirà un modo di possibilità.
La differenza maggiore tra tutte queste è che Intercultura è un'associazione basata su reddito e borse di studio: lo studente non può scegliere il paese per il quale vuole partire, ma può soltanto indicare una classifica dei 10 preferiti; sarà poi mandato in uno di questi 10 se vincerà il concorso per la sua fascia di reddito.
Tutte le altre associazioni invece hanno un prezzo fisso per ogni programma e danno la possibilità di scegliere in che paese si vuole andare. Io per esempio ho fatto richiesta esclusivamente per gli Stati Uniti.
  • Prenota diversi colloqui informativi, ogni associazione è disponibile a una seduta privata gratuita in cui potrete fare tutte le domande che vorrete. Questo sicuramente vi aiuterà a scegliere quella che più vi convince.
Ma prima di iscriverti:
  • Sii sicuro della tua meta, la scelta del Paese in cui andrai a vivere è importantissima. Vuoi imparare una nuova lingua o migliorare una che già sai? Vuoi vivere in un posto caldo o freddo? Hai paura di vivere troppo lontano da casa? Preferisci una cultura simile a quella italiana (es. America del Sud) o una completamente diversa (es. Asia)?
  • Scegli il programma! Nel programma classico, nonché il più economico, si può solo scegliere la nazione (es. Stati Uniti, Canada, Brasile ecc). Con altri programmi (che arrivano spesso a costare anche il triplo di quello classico) si può scegliere la regione di destinazione (es. California), o il distretto (es. Area di Philadelphia) o addirittura la città (es. New York)!
  • Scegli la durata! 3, 6 o 10-11 mesi?
  • Aspetta l'inizio del terzo anno di liceo! E' solo a Settembre del terzo che potrai infatti dare gli esami e iscriverti al programma!
Gli esami consistono in un test psico-attitudinale, in un colloquio informale in inglese e in un test scritto e d'ascolto in inglese. C'è un punteggio minimo per rientrare nel programma, ma di solito viene data una seconda possibilità a chi non passa i test la prima volta. 
Una volta rientrati dovrete compilare un lunghissimo set di fascicoli che verranno spediti nel vostro paese ospitante, dove inizierà la ricerca per la vostra host family. 

Da lì in poi il vostro compito è solo quello di stare seduti ad aspettare, fantasticando di quello che vi aspetta. 
Di film mentali io poi sono stata campionessa. 

Buon viaggio!

lunedì 22 febbraio 2016

Perché l'omosessualità è sbagliata?

30 Gennaio 2016. C'era tanta gente al family day, ''milioni'', dicono. In Italia, l'unico paese occidentale a cui verrebbe in mente di istituire un raduno per cercare di togliere i diritti a chi non li ha. L'unico paese dove non si scende in piazza per reclamare giustizia, ma per negarla a chi ne ha pieno diritto.
C'era tanta gente, veri cattolici, famiglie con figli, suore e preti, tipi in cravatta. Sbandieravano bandiere colorate, alzavano cartelloni al cielo. ''Sbagliato è sbagliato, anche se dovesse essere legge'', recitava uno, con tanto di coppiette blu-blu e rosa-rosa stilizzate a fianco. Così, per rendere più chiaro e crudele il concetto. E questo striscione enorme si moltiplicava in tanti piccoli pezzetti sulla la folla, in tanti fogli A4 tenuti anche loro fieramente in alto.
Un altro diceva in caratteri cubitali blu ''Dio maschio e femmina lì creò'', e un altro incomprensibilmente ''Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro''.
Dal palco è un continuo appellarsi alla volontà divina, nonostante l'impronta laica. E' un continuo negare i diritti alle coppie omosessuali, anziché occuparsi di allargare le opportunità delle ''famiglie tradizionali'', o come le chiamano.



Famiglie tradizionali? Amore tradizionale? Cosa è tradizionale direi io, cosa è sbagliato?
Io ero rimasta al concetto di famiglia come un nucleo fatto di amore, in ogni direzione e senza orientamenti. Pensavo che l'amore tra due persone fosse indiscutibile, andasse al di là della pelle, del colore, della razza e di qualsiasi altra cosa. Mi sono sbagliata io, o si sono sbagliati i sostenitori di questo incontro da, così lo spacciano, 2-milioni-di-persone?
Secondo voi che significato aveva la presenza di politici pluri divorziati e conviventi con le nuove compagne giovanissime, in un raduno in cui si sosteneva la famiglia ''tradizionale''? Quattro figli da tre donne diverse, due matrimoni, un figliastro, un divorzio e mezzo. Due più di due fa quattro. Tradizionalissimo.

In America ho avuto 2 cari amici gay e un insegnante lesbica, e non ci ho mai trovato niente di strano. Uno veniva a fare shopping con me, comprava i leggings da Forever 21 e gli Ugg marroni per l'inverno Minnesotiano. Ci ho messo un po' a rassegnarmi al fatto che in quanto a trucco fosse più bravo di me.
Un altro era bisex, più che gay, e nel giro di 4 mesi aveva portato a casa due fidanzati di sesso diverso. La mamma lo definiva confuso, ma felice.
Lei invece era la mia insegnante di religione in Chiesa, una specie di catechista, ma di una religione stranissima che ancora ho fatica a definire. Quando sono ripartita si era appena trasferita con la fidanzata nella loro nuova casa, si sarebbero sposate da lì a poche settimane. Mi sarebbe piaciuto esserci. Avevano intenzione di avere un figlio a testa, e di farli riconoscere come figli di entrambe. Una famiglia normalissima, due persone giovani, un amore innocente e la prospettiva di un futuro roseo: non è tradizionale questo?

Ho avuto amici gay in America ma io sono etero. Sono etero, e mi sento fortunata, perché qui in Italia non devo combattere per avere una vita come quella dei miei concittadini.
Sono Etero e ne vado fiera, sul serio. E sapete perché?
Perché con dentro il cuore l'amore per quelle persone fantastiche che ho conosciuto nell'altro continente, dentro la testa la consapevolezza che non c'è diversità ma solo uguaglianza, sono un etero che vuole difendere (o meglio istituire) quei diritti anziché negarli, anche se a me in concreto non cambierebbe niente.

Ogni giorno in Italia si sposano in tantissimi, eppure non me ne sono mai accorta, non ne ho mai subito le conseguenze, semplicemente perché le conseguenze non ci sono se non la felicità di quelle persone il cui amore e legame è riconosciuto dallo Stato! Uno Stato che al momento anziché unire, vorrebbe dividere queste persone, non includerle ma escluderle, discriminando invece di tutelare.

Insomma sono Etero, eppure al Circo Massimo non ci sarei neanche voluta passare per sbaglio. Avrei respirato troppa aria di omofobia, nata dalla convinzione che l'omosessualità sia patologica, contro natura, immorale, socialmente pericolosa, o come preferivano dire sui loro cartelloni, semplicemente ''sbagliata''. Avrei incontrato persone convinte di voler allontanare da sé qualcosa che non lede alla propria sessualità, né alla propria vita, né alla propria esistenza in genere, e in virtù dei propri gusti sessuali vogliono negare il matrimonio laico tra due omosessuali.

Perché sono Etero, dicevamo. E se un giorno avrò figli vorrei che crescessero in un paese civile. Vorrei che credessero in una religione che se dice di accettare tutti e perdonare tutto, lo faccia concretamente, senza esclusione di alcun tipo; e che la stessa non faccia il gioco di ignorare e perdonare la pedofilia, e avere il coraggio al tempo stesso di rifiutare l'omosessualità.
E se un giorno questi figli scoprissero di essere gay vorrei che non avessero diritti ipotetici, o meglio, inesistenti, ma dei diritti certi, senza patire discriminazione o provare vergogna della loro natura.

Badate bene, natura. E' questione di natura, non di scelta, di malattia, di problemi psicologici, fisici o traumi di alcun genere. Chi avrebbe scelto di confessarsi ebreo in Germania sotto il governo Nazista?

Sono etero eppure sto dalla parte giusta.
Sono etero, ma anche se non lo fossi, sarebbe lo stesso.

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